Oggi siamo
testimoni di una quantità mai vista di congressi
dedicati al tentativo di salvare il dispositivo
cinematografico tradizionale dalla totale
industrializzazione. In un’epoca sempre più
caratterizzata da un’economia mondiale basata
esclusivamente sul profitto – nonché da quello che
chiamerei Nuovo Pragmatismo derivante
dall’esplosione demografica – potrebbe di fatto
essere comprensibile che i criteri artistici
mostrino la corda. I monopoli industriali
centralizzati e intensivi sono possibili grazie al
livellamento del gusto medio a un comune
denominatore infimo. In altre parole: la macchina
cinematografica americana dipende dalla
popolarizzazione della mediocrità.
Cresce allora la
tentazione di rinunciare alla qualità
semplicemente per mantenere il cinema come forma
di cultura popolare. Ma ci si dimentica che non
sempre "cultura" e "popolare" vanno a braccetto.
L’accettazione della massa diviene l’unità di
misura, e tutti gli altri criteri sono un lusso.
Quando ci
ritroviamo per discutere su come "salvare" il
cinema – pur consci dell’imposizione della
commercialità e del suo potere – diamo per
scontato che certi meccanismi di visione
cinematografica siano assiomatici.
Diamo per
scontato, per esempio, che la gente scelga quale
film andare a vedere. Diamo anche per scontato che
escano di casa per andarlo a vedere, o almeno
continuiamo a sperare che lo facciano, nonostante
il fatto che l’elettronica abbia portato il cinema
in casa. E diamo per scontato che certi film
abbiano più traino sul pubblico di altri.
Ma il dato che
diamo quasi sempre per scontato è soprattutto che
quando qualcuno esce di casa per un’esperienza
cinematica, è il film che glielo fa fare. Anche se
tutte le esperienze di esibizione moderna
dovrebbero aiutarci a dubitare di questo "fatto".
È proprio su
questo concetto – l’esperienza cinematica –
che è necessaria una grande ricerca. Per definire
e promuovere il cinema di domani dobbiamo capire
appieno in cosa consiste – oggi – questo concetto.
Dobbiamo capire meglio perché la gente va al
cinema.
Quando la
televisione iniziò a succhiare spettatori ai
cinema, noi ci dicemmo che il cinema aveva da
offrire un’esperienza sociale che lo scatolone
casalingo non poteva dare. Per molti anni ci
illudemmo che questo semplice fatto avrebbe
salvato il cinema. Oggi abbiamo capito che quando
si tratta di vedere un film in particolare, la
gente si accontenta tranquillamente del proprio
salotto.
Ma la gente
continua ad andare al cinema. Meno numerosi, ma ci
vanno. Sembrerebbe però che quella che chiamiamo
"esperienza sociale" sia rilevante solo per un
decimo del numero totale di persone che guarda
film, se contiamo anche gli spettatori casalinghi.
I bisogni sociali di questi pochi sono diversi da
quelli delle persone che restano a casa, nel loro
nido elettronico?
Se desideriamo
aumentare questa percentuale, o anche solo
mantenerla come è oggi, dobbiamo innanzitutto
capire il significato specifico dell’esperienza
sociale. Dobbiamo capirla non solo come
stimolante alla frequentazione delle sale
cinematografiche, ma anche come drive
sociologico. Perché l’andare al cinema è solo una
forma di esperienza sociale. La scienza che studia
il bisogno dell’uomo di radunarsi non ha mai visto
pienamente la luce nelle strutture della comunità
moderna. Quelle che abbiamo definito come
strutture di comunità moderna sono sistemi di
coabitazione che tendono a isolare l’individuo.
L’auto, il telefono, la radio e la televisione,
Internet, anche la danza moderna, rendono
possibile all’individuo una separatezza ancora più
marcata. Li chiamiamo "mezzi di comunicazione", ma
in realtà sono strumenti che ci separano.
Tuttavia, da un
punto di vista etologico, l’uomo è un animale
tribale, non solo dipendente dagli altri per la
sussistenza, ma anche psicologicamente vincolato
al proprio riflesso nello sguardo altrui per
conservare un proprio senso d’identità. Per
sopravvivere – fisicamente e mentalmente – non
possiamo restare soli. Abbiamo bisogno l’uno
dell’altro, punto e basta.
Questo bisogno è
il nostro istinto principale. Alla faccia di Freud,
il desiderio d’appartenenza è più forte del
desiderio di sopravvivenza (andiamo in guerra,
pronti a morire, per partecipare del senso
d’identità del nostro gruppo), e il sesso è
ovviamente solo una funzione del bisogno
d’appartenenza. Nel corso della storia – in tempi
recenti come nella preistoria – l’esclusione dalla
comunicazione era una punizione gravissima, e il
potere solo una suprema modalità d’appartenenza.
Oggi siamo
ancora più soli, isolati dalle famiglie sempre più
piccole, da una tradizione individualista,
dall’ossessione industriale della competizione,
dall’hubris, dalla teoria della supremazia
dell’uomo, dalla scomparsa della natura. Viviamo –
in quest’era moderna – con degli istinti che non
possiamo più soddisfare. Il conflitto tra la
nostra biologia e la nostra realtà è evidente in
tutto ciò che facciamo. Abbiamo inventato il
conflitto tra l’indivduo e la società per
rimpiazzare il conflitto tra i nostri bisogni e la
nostra vita reale.
Faremmo di tutto
per non essere soli.
Il bisogno di
riunirsi è un’energia immensa. Se lo
comprendessimo correttamente, se analizzassimo con
cura le sue componenti, se applicassimo le nostre
capacità intellettive e analitiche all’abitudine
di andare al cinema, potremmo non solo capire
perché qualcuno se ne va a vedere un film, ma
anche qualche modo per spingerlo a farlo più
spesso. Cos’è, in termini pratici, che vuole la
gente quando si riunisce?
Non sono un
sociologo, e nemmeno un etologo, e le mie
osservazioni devono restare personali e
soggettive. Ma cos’è che ci colpisce quando
vediamo un gruppo crescere progressivamente di
numero, come in un bar, a una festa, a una partita
di calcio o in una famiglia italiana?
Primo: in tutti
questi casi il volume della conversazione si alza.
La gente in gruppo è più rumorosa di quando sta a
coppie. Secondo: si stabiliscono in fretta delle
gerarchie. Un singolo – o un piccolo gruppo
all’interno del gruppo più grande – diviene il
leader, la colonna centrale. Spesso aumenta la
violenza e diminuisce la considerazione reciproca.
L’autoesaltazione va alle stelle: la gente inizia
a dire agli altri quanto è brava a fare questo e
quello. Si tira fuori l’orgoglio. Cresce la
superficialità. La sensazione generale è quella
dell’"Anch’io! Anch’io!". Per la maggior parte del
tempo non è un passo in avanti, insomma.
Tutto questo
probabilmente significa che le persone sono
dispostissime a rinunciare alle loro migliori
qualità per sentirsi parte di un tutto. Sempre
meglio essere un po’ superficiali che soli, no? Il
prezzo da pagare è l’accettazione dei valori del
gruppo. È un po’ come comprare un vestito alla
moda che non c’entra nulla con la nostra
personalità (idea che sta peraltro alla base
dell’intera industria della moda). E allora ce ne
andiamo a vedere Rambo perché ci vanno
anche i nostri amici. La paura della solitudine è
la base del monopolio cinematografico americano.
Questi elementi
negativi prodotti dall’assembramento di esseri
umani non possono essere il solo sintomo del
nostro desiderio di socializzazione. Secondo
Robert Ardrey imparammo a cooperare quando
imparammo a cacciare in gruppo – il solo modo di
sopravvivere in un mondo in cui gli animali
avevano denti, pellicce, velocità, forza e un
altro milione di armi naturali e a noi invece era
toccata solo l’intelligenza. La cooperazione
divenne un istinto, grazie al quale sopravvivemmo
e – forse – continuiamo a sopravvivere. Siamo una
specie che collabora per natura. L’isolamento ci
uccide.
Parrebbe allora
logico che vedere un film non può essere l’unica
cosa che metta le persone alla ricerca di
un’esperienza sociale. Delle ricerche svolte di
recente in Germania dall’Istituto Europeo del
Cinema di Karlsruhe sembrerebbero indicare che la
gente sceglie il film che vuole vedere sulla base
della situazione in cui è presentato, e non del
singolo film. Non è una cosa da poco.
A Locarno, nel
corso del festival del cinema, vengono proiettati
dei film in Piazza Grande, e davanti allo schermo
all’aperto più grande d’Europa si radunano ogni
sera 9000 persone; per vedere il film, certo, ma
anche per incontrare gli amici, cenare, fare
quattro chiacchiere, per prendere parte insomma al
potentissimo impatto di una proiezione pubblica di
quelle dimensioni. E ci vanno tutte le sere, a
prescindere da quale film sia in programma.
Quando ero
bambino vidi il mio primo film in un "cinema" di
Gaza, in Palestina. Fu durante la Seconda guerra
mondiale. Il film era diviso in segmenti da dieci
minuti, e ne veniva proiettato uno all’ora. Negli
intermezzi salivano sul palcoscenico ballerine del
ventre, prestigiatori, gruppi musicali e cantanti.
La gente andava lì per tutta la sera, per essere
parte di quel circo. Il film era solo un elemento
di quell’esperienza.
Uno dei grandi
successi del cinema moderno è il cinema IMAX, dove
su uno schermo gigante vengono proiettati i film
nel modo tecnicamente più perfetto che sia stato
inventato sinora. La pellicola – da 70mm anziché
35 – scorre orizzontalmente nel proiettore.
L’immagine che ne esce è insuperabile. I biglietti
costano molto cari, ma la gente li paga e va ai
cinema IMAX senza nemmeno chiedere che film è in
programmazione. In effetti ci sono pochissimi film
in formato IMAX, e continuano a riproiettare
sempre gli stessi. Ma la gente continua a
tornarci.
In famiglia di
solito si chiede "Andiamo al cinema, stasera?", e
solo in un secondo momento viene sollevata la
questione di quale film vedere. Lo stesso
principio (prima l’esperienza, poi il titolo del
film) sta ovviamente alla base dei cinema
multisala. Nella frase "Andiamo al cinema",
l’accento è su "Andiamo", non su "cinema". È
quindi abbastanza inutile dire che alla gente non
piace un certo tipo di film. Piuttosto ciò che non
piace è un certo tipo di situazione. I risultati
al botteghino non danno la misura della qualità di
un film, ma del modo in cui è stato presentato.
Tutto ciò che la storia ci ha insegnato sulle
origini dell’uomo ci dimostra che siamo stati –
per la maggior parte della nostra storia –
cacciatori e raccoglitori. In altre parole,
abbiamo vissuto di quanto ci forniva la natura.
L’individualità non era di grande importanza per
la sopravvivenza del genere.
Con l’invenzione
dell’agricoltura, circa 9000 anni fa, il cibo
"artificiale" ha dato il via all’esplosione
demografica. Un campo divenne o "mio" o "tuo", e
la natura non fu più l’unico arbitro della nostra
sussistenza. Il contadino più intelligente
otteneva le mele più grosse. L’idea del possesso
prese a controllare – e ad avvelenare – le nostre
esistenze. L’individualità – essere un contadino
migliore – iniziò a contare. La sopravvivenza, a
quel punto, dipendeva dall’individualità. Per 9000
anni ne siamo stati vittime, elevandone il valore
sopra e oltre i nostri istinti naturali. Porsi
fuori (e sopra) la massa era all’improvviso
importantissimo. E mortale. Non c’era più spazio
per tutti, ma solo per quelli intelligenti. O
ricchi, o potenti, o crudeli, o intolleranti.
Questo è ciò che chiamiamo storia moderna.
È vero però che l’individualità ci ha dato la
cultura, la civiltà, l’amore, l’arte, il pensiero,
la scienza – e il cinema. Magari non siamo
istintivamente individualisti, ma l’individualismo
ci ha dato tutto quanto abbiamo, nel bene e nel
male. Non si può scappare. Dobbiamo vivere con
questo conflitto.
Oggi stiamo
entrando in una nuova era. Mentre in passato
essere individualisti era essenziale per
sopravvivere, ora esserlo è via via meno
vantaggioso. Probabilmente da un punto di vista
evolutivo ci stiamo avvicinando allo status delle
api e delle formiche, ci avviamo a essere utili
alla sopravvivenza della specie solo rinunciando
alle nostre differenze. È già ora "scomodo"
socialmente ed economicamente avere troppe nozioni
individuali.
Uno dei più
felici risultati del conflitto tra l’istinto e la
realtà che ha segnato gli ultimi millenni della
nostra esistenza, è lo sviluppo della facoltà che
chiamiamo fantasia.
In poche parole:
quando fu chiaro ai nostri antenati che non
potevano vivere come i loro istinti avrebbero
preteso, iniziarono a immaginare un’altra
forma d’esistenza, più vicina ai loro sogni.
Impossibilitati a vivere le loro fantasie nel
presente, le catapultarono in quello che presero a
chiamare futuro. Praticamente tutta la
nostra inventiva, la nostra creatività, la nostra
arte, a partire dai dipinti delle caverne, tutta
la fantasmagorie dell’immaginazione umana – ma
anche tutte le paure (del futuro) e i sensi di
colpa (per il passato) sono frutti della più
grande invenzione che l’uomo abbia mai fatto: il
tempo.
Il tempo è
l’arma che abbiamo inventato per sopportare un
presente impossibile. Il senso del tempo è ciò che
ci separa da tutti gli altri esseri viventi, e
così la fantasia – una funzione del tempo –
diviene il più centrale dei tratti umani. E la
fantasia ci ha dato – oltre a tutto il resto – il
cinema. Il cinema: l’arte dell’orchestrazione del
tempo. Il cinema: l’arma più potente di cui
disponiamo per sopportare un presente impossibile.
Potrà sembrare
un’idea estrema e semplicistica. Potrà anche
parere fuori posto in uno scritto sulle abitudini
del pubblico cinematografico. Ma se non cerchiamo
le radici profonde del nostro comportamento
sociale, non potremo cambiare le tendenze. E la
tendenza, al momento, è la perdita
dell’individualità, il bisogno di fare ciò che
fanno gli altri, il bisogno di essere una formica
nel suo formicaio, una pecora nell’ovile.
Una volta deciso
che non ci piace quello che potrebbe essere uno
sviluppo naturale – e cioè il fatto che la cultura
sia un lusso in un’epoca di individualità
decrescenti – dobbiamo inventare dei sistemi di
sopravvivenza per la nostra cultura individuale,
basati su una comprensione dei nostri istinti più
profonda di quella che abbiamo avuto in passato.
Dobbiamo pensare a chi è l’essere umano, di
cosa noi, l’animale umano, abbiamo bisogno per
sopravvivere in un ambiente in corso di
distruzione. Dobbiamo guardare più a fondo nel
nostro passato.
Nel mondo nomade
dei nostri antenati avremmo potuto permetterci di
essere giudicati dai nostri pari sulla base di
chi eravamo. Oggi, in un mondo di possesso,
siamo giudicati sulla base di cosa abbiamo.
Questa differenza è alla base di tutta
l’esperienza sociale moderna. Tutti i nostri
incontri quotidiani possono essere in qualche modo
definiti da questa dialettica.
Chi al giorno
d’oggi non possiede una vasta collezione di film o
videocassette? Chi non è tornato a casa dall’india
con delle foto del Taj Mahal? Chi è immune
dall’illusione dell’indipendenza generata da
gadget moderni come la televisione, il computer,
le case, i vestiti?
Tutte queste
sono solo prove del compromesso di base dei nostri
tempi: l’individualità espressa attraverso il
possesso. Non esperiamo più i film, li possediamo.
Non ci godiamo più la vista del Taj Mahal, ce lo
portiamo a casa.
L’auto non ci
conferisce uno status sociale perché cambiamo come
esseri umani quando la cambiamo, ma perché
possediamo i simboli che rappresentano lo
status. Compriamo lo status. Industrie da
miliardi sono costruite sulla fatale
industrializzazione delle emozioni.
Perché
diventiamo più rumorosi quando ci troviamo in
gruppo? Perché parliamo dei nostri successi, veri
o inventati? Perché siamo più disposti a
ubriacarci in compagnia e vogliamo sempre che
bevano anche i nostri vicini? O che si droghino
con noi? O – à la rigeur – che vengano a
letto con noi? Perché andiamo in piazza a Locarno
senza nemmeno sapere – a volte – che film verrà
proiettato? E infine perché non siamo mai
veramente felici con quello che abbiamo?
L’etologo – lo
scienziato che indaga il comportamento degli
animali e applica le sue scoperte all’uomo– ha una
semplice risposta a tutte queste domande: avere
non è abbastanza. Nel profondo, nonostante le
deformazioni di migliaia di anni di valori
sconvolti, abbiamo ancora bisogno di essere.
E percepiamo il nostro essere in primo luogo
essendo accettati dai nostri pari. Per questo
parliamo ad alta voce, raccontiamo storie di cui
siamo gli eroi, beviamo in compagnia, copuliamo,
cerchiamo di esperire la vita sensualmente, di
essere in altri termini consci di quanto ci sta
attorno e di percepirlo emotivamente. Sensualità è
sinonimo di unione.
Naturalmente non
andiamo al cinema solo per sfuggire alla
solitudine. Ma preferiamo quasi sempre pagare per
vedere un film in compagnia piuttosto che prendere
la cassetta dalla libreria e vederla da soli. La
percezione emotiva è in qualche modo differente.
La compagnia fa la differenza. E allora noi
vogliamo avere anche questo. Acquistiamo
materialmente ciò che bramiamo emotivamente. È
così che i nostri istinti di base sono divenuti un
grande business.
Ora la fantasia
può essere comprata.
La storia non
può essere riavvolta come un film, e fermata su un
fotogramma. Dovremo probabilmente convivere con
mostro che abbiamo creato, a trovare dei modi di
utilizzare le nuove energie che la
commercializzazione impone. Perché queste energie
ci sono, e possono essere manovrate. Una volta
accettato il fatto di essere entrati nel commercio
delle emozioni, nulla ci può fermare dallo
scegliere le emozioni che vogliamo vendere. La
salvezza è in questa direzione.
Se insieme alla
proiezione di un film noi offriamo qualcosa –
qualsiasi cosa – che comunichi la sensazione
dell’esistenza, la sensazione di essere
vivi, di essere parte di qualcosa di più grande di
noi (che è peraltro ciò che fanno le religioni),
se convogliamo attorno al film la promessa di
un’esperienza sensuale, se creiamo attorno al film
un evento basato sulla partecipazione, se
l’aura di incontro sociale viene promossa e
mantenuta e se stabiliamo questo tipo di visione
cinematorafica come lo standard, allora non c’è
motivo per cui dovremmo adattarci a usare la
mediocrità per dare al pubblico la sensazione di
essere al passo con i tempi. Anche la qualità può
essere lo standard. È solo che non ci ha mai
davvero provato nessuno. Naturalmente non basta
dare alla gente Popcorn, hamburger, videogiochi
all’entrata e delle poltrone decenti. Ci sono
molte teorie su come dovrebbe essere offerto al
Nuovo Pubblico. Gli architetti sono al lavoro su
un design cinematografico che abbia una nuova
dimensione sociale. La ricerca si dà da fare per
comprendere il fenomeno e ha dato vita a complessi
come il Multiplex, che è già in parte un successo.
E naturalmente i cineasti proseguono la loro
eterna lotta per scoprire una formula per il
cinema di domani. Ma quelle che abbiamo – per il
momento – sono buone idee, non risposte
definitive.
La mancanza di
risposte definitive non significa però che non
abbiamo indicazioni circa la direzione in cui
dovrebbero trovarsi. Sappiamo che ci deve essere
un evento, qualcosa che l’elettronica domestica –
anche con una tecnica perfetta – non potrà mai
fornire. Sappiamo che ci deve essere una
dimensione sociale, anche qui qualcosa che non si
può avere nel salotto di casa. Sappiamo che
sensualità non vuol dire semplicemente sedersi e
accogliere passivamente un’emozione precotta.
Sappiamo che la serata non può limitarsi alla
proiezione. Sappiamo che dobbiamo comunicare la
sensazione di condividere qualcosa, di unirsi
attivamente a un gruppo di pari. Sappiamo che
la serata deve essere qualcosa di vivo. Che deve
essere qualcosa che ci impegni, non che ci faccia
sfuggire alla realtà.
Quest’ultima
annotazione potrebbe essere la più importante. Il
concetto di entertainment su cui sono
basate le tecniche di vendita del cinema, è in
realtà un semplice sinonimo di mediocrità.
Si è dimostrato enormemente remunerativo far
sfuggire dal mondo reale le persone e portarle in
una sfera di totale rimozione delle loro vite. L’entertainment
è giunto a simboleggiare questa rimozione. La
mossa successiva è stata la stimatizzazione delle
opere che non ci fanno sfuggire alla realtà. Siamo
tornati ai primi inventori della fantasia, al
conflitto tra istinto e realtà. Ma è stato
eliminato tutto ciò che di magnifico la fantasia
porta con sé. Dove un tempo la fantasia era alla
base dell’individualità, ora è la misura del
minimo comun denominatore della nostra mediocrità.
È pericoloso
affidarsi solo al film per creare l’evento di una
serata. Anche Rambo comunica un senso di
unione. Non perché sia un "buon" film, ma perché
tutti lo stanno andando a vedere. Potrebbe essere
proprio questo il vero segreto del cinema
americano. Avere portato il gusto del pubblico a
un livello tanto basso e poi avere postulato che
questo livello fosse lo standard. Lo standard
perché è popolare. Popolare perché è lo standard.
Sarebbe un altro
chiodo nella bara dell’individualità se
accettassimo l’idea che l’adeguamento a uno
standard sia solo un’altra forma d’individualità.
Ma è più o meno questo che stiamo facendo.
La mediocrità
come standard di vita non è certo un fenomeno
limitato al mondo del cinema. Quanto succede per
il cinema è solo la punta dell’iceberg di un più
ampio declino culturale fenomenologico. Lo stile
di vita alla McDonald fa passi da gigante in ogni
settore: gli abiti, il cibo, la musica, i
comportamenti sociali, la tecnologia, la forma che
stanno assumendo i media, l’industria del
divertimento, l’etica degli affari, l’arte,
l’istruzione, le relazioni familiari, il disprezzo
per la storia, la distruzione della natura e la
crescente mancanza di rispetto che proviamo per
noi stessi.
La nostra
identità culturale può essere conservata solo se
ricordiamo chi siamo. E se ci rispettiamo per
questo. Non siamo in pericolo in quanto spettatori
cinematografici, ma in quanto esseri umani. |